[identity profile] m-bfly.livejournal.com posting in [community profile] macaon
Titolo. Bombarded by the atmosphere
Fandom. Sherlock (BBC)
Personaggi. John Watson, Sherlock Holmes (breve apparizione)
Rating. PG-15
Warning. Alieni!AU, piccoli inserimenti arrandom di roba inventata da Asimov, violence
Conteggio Parole. 2272 (FDP)
Beta-reader. [livejournal.com profile] sarabakanashimi <3
Riassunto. John Watson, ufficiale dell'Esercito Imperiale, chiuso nel guscio caldo della sua tuta termica mentre faceva il giro di ronda, osservava il cielo scuro sopra di lui.

Disclaimer. Sherlock e i suoi personaggi non sono miei ma della Premiata Ditta Moffat & Gatiss, degli aventi diritto e di quell'anima beata di Conan Doyle. Uso la roba loro per divertimento personale e non per farci quattrini a tradimento. Ah, e i riferimenti all'opera asimoviana sono messi lì un po' a casaccio ma con tanto, tanto amore e rispetto. <3
Note. Scritta per il COW-T 2, I settimana, prompt 'Guerra'. (*coro* "We are meen, we're men in thighs! We aaare the Mighty Knights!") e per la mia AUTabella ([livejournal.com profile] auverse), prompt 'Alieni'.
Il titolo è una strofa di "Right behind you" degli Our Lady Peace.





BOMBARDED BY THE ATMOSPHERE





Le notti sull'asteroide N-991 erano quel che alcuni antichi scrittori trantoriani avrebbero definito fitta caligine: nessuna luna a rischiarare il cielo - l'asteroide su cui si trovavano era troppo piccolo per possedere l'attrazione gravitazionale necessaria a tenersi stretta l'orbita di una luna -, l'atmosfera così rada da essere quasi inesistente e richiedere l'uso di tute e caschi per poter sopravvivere, e temperature infernali quando il piccolo, vecchio sole di quel quadrante illuminava il cielo di una luce bianca, per poi scendere in picchiata non appena scompariva all'orizzonte.
John Watson, ufficiale dell'Esercito Imperiale, chiuso nel guscio caldo della sua tuta termica mentre faceva il giro di ronda, osservava il cielo scuro sopra di lui. Non c'erano molte stelle in quel tratto di universo, al limitare della Galassia; dal suo pianeta, situato nello stesso quadrante della capitale dell'Impero, Trantor, se ne potevano vedere una gran quantità di chiare e splendenti che bucavano il buio con la loro luce tremula. Lì invece niente. Senza né luna né stelle non sembrava neppure un vero cielo notturno, solo un mantello scuro, una lugubre tenda che ricopriva l'asteroide.
Niente cibo, niente acqua, niente aria. Non avrebbe avuto senso anche solo segnalare un posto del genere nelle mappe interstellari se non fosse stato per un piccolo, importante particolare: quel grosso sasso che al momento ospitava due astronavi da guerra era la fonte del venti percento delle riserve di nickel dell'Impero. In pratica, un intero asteroide fatto di quel metallo, una risorsa importantissima.
Attualmente, una risorsa minacciata.
John camminava adagio, osservando la superficie butterata del pianetino attraverso il visore a infrarossi del casco.
Qualcuno avrebbe dovuto prevederlo, lì, ai piani alti, che con la massiccia espansione dei domini imperiali fino ai margini della Galassia ci sarebbero stati dei grattacapi. Era come scuotere un alveare e pretendere che le api non uscissero a difendere il loro miele. L'alveare era la galassia confinante, l'Impero l'aveva stuzzicata prendendo possesso di risorse che con ogni probabilità gli altri consideravano parte del loro territorio, e le Api si erano scatenate.
John le aveva viste ogni giorno nei video dal fronte, quelle che loro chiamavano Api - esseri dal corpo lungo e magro, rapidissimi e letali come serpenti - ma pochissime volte dal vivo. Però aveva visto i cadaveri dei tecnici degli impianti estrattori sugli asteroidi della Fascia Esterna, quella che era stata attaccata per prima, e non pensava sarebbe mai riuscito a dimenticare i loro corpi gonfi e deformati dal veleno delle Api, le vene superficiali scoppiate per la pressione e le bocche aperte in un perpetuo urlo di orrore.

John serrò la mascella al ricordo e si appoggiò allo scafo dell'astronave dietro di lui, con l'arma che pendeva da un braccio e che faceva battere ritmicamente lungo la coscia, per scaricare il nervosismo.
Nel casco risuonò la voce di Murray che annunciava che il settore nord era sgombro. Pochi secondi dopo, uno dei soldati nel settore ovest - John non riusciva mai a ricordarne il nome - faceva lo stesso.
Aprendo il suo microfono e gettando un'altra occhiata ai dintorni, John stava per dichiarare libero anche il suo settore, quando la voce del sergente Liversey lo anticipò.
"Rilevo dei movimenti nel settore sud." Sembrava spaventato, la voce un po' strozzata e l'ansia chiaramente percepibile nel suo tono urgente. John si voltò istintivamente verso quel settore, il fucile laser stretto in pugno, pronto ad essere imbracciato.
Dopo qualche secondo, la voce di Liversey aggiunse, piuttosto inutilmente. "Nessuna impronta termica."
La bocca di John si curvò in un sorrisetto; come se i rilevatori termici fossero di qualche utilità con quei mostri. Una delle poche cose che si sapeva di loro era che non emettevano calore. Che fosse per una particolare conformazione della loro pelle o perché dentro di loro scorresse un sangue - o qualcosa equivalente al sangue umano - freddo non si sapeva ancora, ma John propendeva per l'ultima ipotesi.
Pochi istanti dopo, tutto scoppiò. Nel casco esplosero delle urla stridule, agghiaccianti e altissime, mescolate a quelle allarmate di Murray che urlava Cosa succede?! e Liversey! a intervalli di circa un secondo, e l'ansimare pesante degli altri. John, che avrebbe tanto, tanto voluto poter spegnere il collegamento e non sentire quelle urla che gli stavano gelando il sangue, combatté l'impulso di stringere gli occhi e chiudersi le orecchie con entrambe le mani.
Dopo una manciata di secondi, le grida del sergente si spensero in un orrendo gorgoglio, e il resto della squadra si zittì, in attesa; un silenzio innaturale calò dentro i caschi.
John, con il proprio respiro accelerato a risuonargli nelle orecchie, scandagliava velocemente i dintorni attraverso il visore a infrarossi. Sembrava non ci fosse niente, tranne alcune montagnole di detriti nate dall'estrazione del minerale dal sottosuolo, e la superficie butterata del pianetino.
All'improvviso, qualcosa si mosse. Il movimento fulmineo avrebbe potuto facilmente sfuggire agli occhi di John ma non al rilevatore di movimento: una zona alla destra dello schermo del casco iniziò a pulsare di luce rossa, sempre più velocemente man mano che i movimenti all'esterno aumentavano. John ebbe giusto il tempo di aprire la comunicazione con l'astronave e dare l'allarme prima che il cielo scuro dell'asteroide si illuminasse di bianco e iniziassero i bombardamenti. Le astronavi avevano alzato gli scudi e iniziato la contraerea, e John corse a ripararsi dietro uno dei mucchi di detriti; trovò il caporale Sullivan con la schiena contro la montagnola, una risata nervosa dentro il casco.
"Alla fine sono venuti allo scoperto, eh, Watson?" ridacchiò, senza fiato. John gli lanciò un'occhiata e si sporse a guardare nella direzione da cui proveniva il bombardamento. I movimenti che aveva captato prima continuavano, ma erano troppo rapidi e non riusciva a seguirli con gli occhi. Solo lo schermo continuava a pulsare di rosso a indicare che il nemico era più vicino di quanto sembrasse.
John tornò al riparo, con un gemito frustrato. Vide che Sullivan aveva seguito il suo esempio e, allungato il collo al di là del mucchio di detriti, scrutava il buio con occhi ansiosi.
"Vedo qualcosa, Watson!" ansimò il soldato, le dita bianche contro il metallo del fucile. "Credo si stiano avvicinando... Ce ne dev'essere uno lì, appena a un passo da noi, dietro quel mucchio. Forse potrei aggirarlo e-"
"Non ci pensare nemmeno!" sbottò John nel microfono. "Vuoi farti ammazzare?"
"Ma ce n'è uno solo!" Sullivan si voltò di scatto verso lui e lo prese per un braccio, con gli occhi spalancati. "Non sappiamo niente di quei mostri. Se riuscissi a ucciderlo-"
"Ho detto di no, caporale!" gridò John, ma senza risultato. Infatti, il soldato era già uscito, e si spostava rapido, col fucile puntato verso la direzione in cui aveva visto il movimento nemico; trovò rifugio poco più avanti, dietro un altro mucchio. Se avesse potuto, John si sarebbe messo le mani nei capelli per la frustrazione. Quel ragazzo voleva morire, era evidente!
Mormorò qualche imprecazione tra i denti, senza togliere per un solo istante lo sguardo dal commilitone a pochi metri da lui. Stava per aprire la comunicazione e ordinare al caporale di stare fermo dov'era, per gli Dei, che non osasse muoversi, quando vide Sullivan sporgersi dal mucchio, col fucile spianato e fare fuoco verso un punto nel buio.
John non avrebbe mai saputo cosa spinse Sullivan a uscire dal riparo e sparare apparentemente al nulla. Giorni dopo, alcuni esperti trantoriani, venuti a sapere dell'episodio, avrebbero ipotizzato che le Api possedevano la capacità di manipolare le menti, spingendo un uomo a commettere atti che di sua spontanea volontà non avrebbe mai compiuto.
John preferiva pensare che Sullivan avesse visto il nemico vicino e apparentemente vulnerabile e avesse deciso d'impulso, sull'onda dell'adrenalina e del desiderio di gloria.
L'unica cosa che sapeva per certo era che aveva visto il soldato sparare all'impazzata, i fasci d'energia che esplodevano in rapida successione dall'arma e andavano a perdersi nel buio. Poi un movimento, di poco più lento dei proiettili, e il petto dell'uomo che si squarciava, come se gli organi interni fossero scoppiati, attraversato da ciò che sembrava un denso fascio di luce giallastra. L'istante dopo Sullivan si accartocciava su se stesso e cadeva a terra.
Durò tutto pochi secondi; l'urlo di John risuonò nello spazio ristretto del suo casco, davanti agli occhi il visore gli riportava l'immagine sgranata in verde e nero del corpo del caporale a terra, con un pauroso squarcio che gli mangiava la quasi totalità del busto e neppure una goccia di sangue intorno. L'istante dopo, John era fuori dal riparo offerto dai detriti, l'arma puntata verso il nulla e le gambe che correvano verso il corpo riverso a terra.
Un movimento fulmineo alla sua sinistra, un lampo di luce e uno scoppio di dolore alla spalla furono i suoi ultimi ricordi di quella che rimase la sua prima e ultima battaglia sul fronte degli asteroidi della Fascia Esterna.

*

Si svegliò un'ora dopo il suo ferimento, intontito e con l'impressione che un animale gli stesse divorando la spalla. Mugolò e si contorse per il dolore per un bel pezzo prima che qualcuno si avvicinasse e gli iniettasse in vena una qualche sostanza che, per grazia divina, funzionò all'istante, e John poté scivolare nuovamente nel sonno.


*

Trantor, la capitale dell'Impero, era davvero immensa, grande come l'intero pianeta e protetta da una cupola che garantiva alla popolazione un clima e una temperatura sempre costanti, in ogni stagione dell'anno.
John alzò gli occhi verso il cielo artificiale che rivestiva la città e vide un paio di nuvole che nuotavano in un mare azzurro; a sinistra, una sfera luminosa faceva le veci del sole di Trantor e si spostava lentamente a seconda dell'ora del giorno, come un grosso orologio.
Prima della guerra, John aveva sognato di trasferirsi sul pianeta imperiale, lasciarsi alle spalle la casa in cui era nato e cresciuto, le tombe dei suoi genitori, sua sorella Harry, il suo mondo di provincia... Trantor era la meta di tutti i giovani che volevano fare fortuna e John aveva condiviso le speranze della maggioranza dei coetanei finché gli esseri umani non avevano messo la mano nell'alveare ed era scoppiata la prima guerra intergalattica della storia.

John osservò l'azzurro del cielo e si chiese distrattamente cosa stesse accadendo in quel momento, a migliaia di parsec di distanza, ai confini della Galassia. Sapeva che se era ancora vivo lo doveva a Murray, che aveva sentito gli scambi di battute tra lui e Sullivan ed era accorso, caricandoselo sulle spalle e portandolo al sicuro sull'astronave. Sapeva anche che non avevano subito altre perdite a parte il caporale e Liversey, e che le astronavi erano riuscite a respingere l'attacco dopo uno scontro durato fino al sorgere del piccolo sole, quando le Api si erano ritirate - forse nel sottosuolo, perché non avevano astronavi a loro disposizione.
Non sapeva e non voleva sapere nulla sull'andamento della guerra, se il fronte fosse avanzato o retrocesso, se avessero scoperto qualcosa in più sulla natura del loro nemico. La sua terapista diceva che era una forma di distacco dalla realtà, dovuta al trauma. John, stringeva i denti e mascherava con l'indifferenza il terrore di quella manciata di minuti nel cuore della battaglia.
Di notte, quando chiudeva gli occhi rivedeva l'immagine in verde e nero di Sullivan con un buco al posto della gabbia toracica. Si sentiva così anche lui, con il vuoto al posto degli organi, un burattino dalle costole spezzate che mangiava e respirava, ma che non viveva. Passava il suo tempo vagando per la città - la Parte Alta, quella in superficie, abitata dal ceto medio-basso, non il sottosuolo, dove si trovavano le zone residenziali della borghesia - osservando la gente dei sobborghi e chiedendosi se davvero tra di loro si nascondessero spie nemiche, come dicevano i videogiornali. Alle volte quando tornava nel suo piccolo, squallido appartamento faceva qualcuno degli esercizi di riabilitazione che gli aveva imposto il biomedico per riacquistare una buona funzionalità alla spalla ma il più delle volte la protesi in titanio gli dava il tormento e preferiva passare la giornata disteso a letto, senza pensare.

*

I giorni passavano lenti e il cielo azzurro era sempre là, immutato e immutabile, sopra il metallo grigio dei palazzi governativi. I videogiornali continuavano a offrire i bollettini dal fronte al pubblico famelico. John aveva iniziato ad ascoltarli, i notiziari, ma il suo interesse era più per i dibattiti scientifici a proposito della natura delle Api, in cui le ipotesi più balzane - "Sono tra noi, vi dico! Si stanno infiltrando fin nei ceti alti per abbatterci!" - si mescolavano ai pochi fatti comprovati.
Negli ultimi giorni, qualcosa era cambiato nella vita del capitano John Watson: la settimana prima, in una delle zone verdi cittadine, aveva incontrato Mike, un suo compatriota che si era trasferito a Trantor prima della guerra e che - John non sapeva bene come né perché - aveva insistito nel fargli conoscere un suo amico, un tipo strano dalla parlantina fluida e gli occhi che parevano fatti dello stesso metallo dei palazzi cittadini; quell'uomo strano gli aveva stretto la mano tra le sue, fresche e dalle dita lunghe, e aveva parlato di esperimenti di chimica e della guerra in corso, snocciolando il passato militare di John come avesse assistito di persona alle sue vicissitudini.
Era un uomo così interessante e particolare che John ne era rimasto immediatamente affascinato, ma mentre tornava al suo appartamento, non aveva potuto fare a meno di associare quell'uomo, quello Sherlock Holmes, alle immagini che vedeva tutti i giorni sui videogiornali: creature capaci di intuire ogni mossa altrui nello spazio di un istante, dotate di qualcosa che sembrava rasentare la preveggenza. Creature magre, alte, svelte e intelligenti. Molto intelligenti. Imprevedibili.
John Watson si era stretto nel giacca, colto da un brivido improvviso nonostante la temperatura esterna fosse rimasta invariata, mentre un pensiero inquietante e involontario gli aveva attraversato la mente e, prima che riuscisse a scacciarlo, aveva messo radice.
Loro sono tra noi.
Sono in mezzo a noi.

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